The Chronicles of Naska Lubich
June 9, 2022

Nuvole

Le nuvole si accalcano a ovest.
Un orizzonte di tenebra riempie i polmoni e dà al corpo un sentore di vuoto.
All’improvviso, come se il Fato avesse perso la pazienza in un raptus di furia, una striscia di fuoco squarcia di luce il profilo delle ombre; un’eccitazione folle pizzica i miei nervi.

Era il 10 giugno del mio ventunesimo anno di vita e la mia sorellona si stava laureando. Io no, per motivi che racconterò in seguito, se ce ne sarà l’occasione; adesso è meglio partire con la storia.
Dicevo… era il 10 perché la vicenda inizia lì, a mia insaputa, anche se sarebbe più corretto dire che un inizio non c’è in senso assoluto, per cui l’ho posizionato a quelle coordinate temporali (in riferimento alla mia Terra) per comodità letterarie.
Siccome si deve procedere con ordine rispettando il mio punto di vista — ovvero ciò di cui ero al corrente — partiamo dal giorno successivo.

Il pranzo si era appena concluso e i commensali chiacchierando del più e del meno sorseggiavano un amaro, fornendo al mio pensiero un terreno fertile per deviare verso altre sponde; vale a dire che mi stavo distraendo. Come spesso accade quando sono sovrappensiero, persi la cognizione di dove fossi e con quella anche il mio scudo di attenzione.
<< Io vado a prendere una boccata d’aria, vieni con me? >> disse Gianni, un amico di famiglia che ci conosceva da prima che nascessimo. << Sì, okay. >> rispose senza chiedere la mia gentile spontaneità.
Mentre mi alzavo dalla sedia con la goffaggine di chi è appena tornato fra i vivi, e mi rendevo conto della situazione in cui stavo per trovarmi, notai un dettaglio strano: una ragazza seduta al bancone del bar che prendeva da bere, e fin qui tutto bene, se non fosse che i suoi capelli sembravano ondeggiare, proprio come onde, come arte procedurale che si ripete uguale a se stessa in un ambiente virtuale. *clack* le porte in vetro si erano chiuse alle mie spalle, come in un cliché holliwoodiano.
Il sigaro di Gianni era nel frattempo passato dalla confezione alle sue dita, poi su fino alle labbra per essere accesso da un modesto accendino. Potrei parlare di come gli accendini siano de facto versioni evolute dell’acciarino; o di come sorvoliamo sul significato delle parole che più spesso utilizziamo — e sicuramente darebbe un quadro del mio carattere — ma il tempo non so se esiste in questa zona di universo… non so se scorre (presumo di sì) e come scorre. << È stata proprio brava, eh. Il massimo dei voti, ma si sapeva, insomma, si è sempre impegnata. >> disse lui come da copione, con un accenno di rimprovero e delusione, girando in torno al succo della questione come si toglie la buccia ad un frutto.
<< Uhm, già. >> risposi io. Cosa avrei dovuto dire? Ormai il danno era fatto, potevo solo prepararmi all’impatto con la marea. Gianni mi dette quello sguardo. Uno sguardo che purtroppo avevo imparato a riconoscere da lontano, forse lo temevo anche, ma senza ombra di dubbio mi dava fastidio. << Tu invece… [agitando il sigaro come fosse un attore] hai lasciato e —
<< E cosa? >> lo punzecchiai, ormai stanco di quei discorsi. << Me lo devi dire anche oggi? >>
<< Te lo devo dire a maggior ragione oggi! >> affermò alzando la voce. << Hai buttato via tre anni per cosa, per un sogno che non si può realizzare, un’utopia, una fantasia, una distrazione. >>
[sguardi intensi] << Non ti devo nessuna spiegazione, tanto non capiresti. >>
<< E invece sei tu quello che non capisce, che sta buttando all’aria la sua vita, che non ascolta i consigli di noi… >> la sua voce andava perdendosi poco dopo i timpani; non mi andava di ascoltarlo, non mi andava di sentire sempre le stesse critiche, ma soprattutto non sopportavo che mi si dicesse come dovevo vivere la mia vita. Sono consapevole che sto rischiando molto, e che potrei sbagliare, ma se anche fosse, se anche dovessi inciampare sulla via per l’orizzonte, dagli errori si può imparare e dalla cadute ci si può rialzare, a patto di volerlo — e dettaglio più importante di tutti: mi rende felice vivere a modo mio.


Un soffio di vento leggero, come l’adrenalina nel sangue di un soldato prima della battaglia, sconvolse quelle spirali di fumo grigio davanti ai miei occhi. Mi riportò al presente. Un presente in cui il mio interlocutore, ormai stanco, accennava a voler tornare all’interno. Io tuttavia non potevo seguirlo: mi riusciva già difficile mantenere il contatto visivo.
Adesso che ci ripenso, a mente lucida sebbene molto accaldata, posso rivedere il suo profilo che si volta, come in un cortometraggio in slow-motion, le volute di avorio, grigie e allo stesso tempo bianche, che lo seguono disegnando una scia, e infine un’altra figura, più alta, graziosa e gentile nell’aspetto, che usciva sul porticato e mi sorrideva, senza lasciarmi nulla se non il desiderio giovanile di abbracciare tutta la bellezza che si incontra.
Mi voltai per seguirla con lo sguardo, cercando di non andare oltre un’innocente curiosità, e notai con un misto di sorpresa e inquietudine che era la stessa ragazza, con gli stessi capelli ondeggianti, che avevo visto poco prima al bar. Forse lei notò la mia espressione semi-stupita o pensò che stavo per dire qualcosa per rompere il ghiaccio e che, quindi, precedermi era l’unico modo per stroncare sul nascere la mia iniziativa. Non saprei dirlo con certezza, ma sorridendomi ancora, con le sue labbra sottili che immaginavo sapessero di miele, mi disse: << Ciao - >> il più bel ciao che avessi mai sentito. Fu in quel momento che mi condannai al resto di questi giorni. Pensando che volesse parlare un po’, e che magari mi aveva giudicato un ragazzo carino, mi avvicinai di qualche passo scendendo con lei dal porticato. La salutai e feci una battuta sul meteo incomprensibile di quei giorni, una cosa che suonava più o meno “Ciao, ei. Anche tu qui, eh? In questa parte di mondo in cui non è chiaro che stagione sia…” sì, lo so, non c’è bisogno che commentiate alle mie spalle.


Lei si portò più vicina. Così vicina che sarebbe stato inopportuno in un altro contesto, eppure il suo viso mi affascinava come la luce per un girasole e ben presto dimenticai la stranezza di quella distanza.
<< Lo sapevi che la luce del sole ci mette circa otto minuti ad arrivare qui? Perciò potrebbero essere i nostri ultimi istanti e non lo sapremmo. >> dissi io che non vedevo altro che i suoi occhi di cristallo.
<< Be’, su questo pianeta, almeno. >> rispose.
<< Conosci altri pianeti? >> ormai ero preso dall’emozione e ignoravo la mia conoscenza pregressa.
Lei fece una smorfia, inclinando la testa di lato e guardando in alto. << Chi lo sa, di certo sarebbe bello se ci fossero, non è vero? >>
<< Sì, be’. Sarebbe davvero fantastico se ci fossero altri corpi celesti abitati, con altri soli che orbitano infuocati, e poi… e poi altre persone da conoscere, altri luoghi da scoprire. Sarebbe come un sogno, anche solo poter viaggiare nello spazio. Certo è molto buio, però… >>
<< Ci si fa l’abitudine, come andare in bicicletta. >> fu la sua risposta spontanea, come se stesse raccontando del tempo che farà domani.
Aprii la bocca per dire qualcosa ma non mi venne nulla.
<< È così che dite da queste parti, giusto? Oh, forse era l’altra metafora. Com’era… >>
<< No, be’, ecco; ha senso come l’hai detto ma sembra che tu … insomma, sembra che tu sappia di ciò che parli per esperienza personale. Tu… aspetta, non mi hai detto come ti chiami! >>
Vicini come eravamo non potei fare a meno di scorgere il lampo di sorpresa che le scurì il volto.
<< Speravo che avremmo potuto conoscerci meglio, prima di arrivare al punto ma, va bene così. Dopotutto non mi sono mai piaciute le attese inutili. >>

Detto questo mi baciò sulla guancia, con una calma surreale che avrei volentieri definito sensuale, per poi sfiorare con altrettanta fretta il mio collo, dove sentiti un pizzico, e poi le mani, o meglio i polsi, sui quali comparvero due bracciali stretti e sottili, quasi impercettibili, uniti da un invisibile campo di forza.
A sua insaputa, e per mia somma gioia, l’istinto di auto-conservazione si era risvegliato e puntava dritto contro di lei.
Abbassai il capo e lo rialzai di scatto, fissando sbalordito prima i miei polsi, e poi lei. Poi ancora i polsi e poi lei che mi guardava raggiante; cercai anche di toccarmi il collo, dove sentivo un piccolo punto caldo all’incirca dove lo stesso si unisce alla schiena, tuttavia non era un movimento facile con le mani legate l’una all’altra, e la sensazione crescente che qualcosa di spiacevole stesse per succedere mi rendeva confuso e impacciato.
Fu allora che tentai la fuga.
Scattai di lato e corsi sì e no due metri quando sentii una scossa partire dal collo, propagandosi in tutto il corpo e facendomi ruzzolare a terra come un bimbo che sta imparando a camminare. Solo che io non ero un bambino e qualcuno mi aveva appena ammanettato!
<< Ehh già. >> disse, << Proprio così, mio caro. Tu cerca di fuggire, fai una sola mossa nella direzione sbagliata e splash! Ti ritrovi con la faccia a terra e il culo per aria. >>
<< Non… io non credo che tu… non sono io chi cerchi tu! >> fu l’unica cosa che fui capace di dire.
<< Oh, io credo proprio di sì. Làzarus Jackson, —
<< Làzarus chi?? >> protestai, e venni fulminato.
<< Zitto che che sennò non è legale. Làzarus Jackson, in nome dell’Alleanza Galattica ti dichiaro in stato di arresto… o era sequestro? >>

<< Rapimento? Forse è questa la parola che stai cercando, ragazza il cui nome non mi è dato sapere… non è forse un mio diritto? >> pronunciai a perdifiato senza più badare, anche se per un attimo, a quanto era assurdo tutto quanto, e al fatto che mi aveva chiamato con un nome inverosimile, io mi chiamo Nico.
<< Diritti? Voglio proprio vederti a parlare di diritti davanti alla Commissione di Giustizia, ma non credo che rideranno quanto me! >> esclamò in un sorriso che stentava a non apparire sprezzante.
Nel sentirla parlare così ebbi la sensazione che mi stesse davvero confondendo con qualcun altro, e mi sentii perso perché l’espressione sul suo volto era così sicura che fossi io, chiunque lei stesse cercando, che non sapevo da dove cominciare per spiegarle che non ero io il suo bersaglio.
<< Senti allora, io non so chi tu creda che io sia. Sta di fatto che non lo sono, okay? Come potrei? Ho vissuto qui, su questo pianeta da quando sono nato… >>
Ma lei non dava segno di ascoltare. Mi stava conducendo, tirandomi con la forza o sotto la promessa di una scossa, verso un luogo poco più in là, oltre le siepi e i cespugli di rose che punteggiavano il grande parco del ristorante.
Mi fermai un istante, pensando che forse, ed era un forse grande quanto una casa (oserei dire quanto un pianeta), avrei potuto correre verso le porte a vetri, per farmi notare da quelli all’intento, e pensavo che se avessi corso abbastanza in fretta avrei almeno potuto sbattere a peso morto contro il vetro e così…
<< Non pensarci proprio. Nessuno è mai sfuggito alla mia cattura, o al mio fascino. >> e lo disse voltandosi, in maniera teatrale e dannatamente carina, con la chioma bionda che si spostava da un lato, scoprendo i pendenti dorati a forma di stella e il sottile collare, disegnato con gli stessi motivi, che le adornava un collo esile e sinuoso.
Più di tutti questi dettagli mi sorprese il suo volto: gli occhi parevano risplendere di una luce fredda, ammaliante come il canto di una sirena, le guance davano l’impressione di potersi accendere in una furia giovanile che non conosce pietà, e le labbra che si increspavano in un sorriso malizioso, ma al tempo stesso inquietante, davano l’idea di poterti strappare l’aria dai polmoni con la delicatezza di un bacio estivo.