capitolo I
Il cielo era terso quella sera, una lastra azzurra sopra l’orizzonte lontano che andava screziandosi dei colori infuocati del tramonto. Aspettai immobile sulla veranda finché il chiarore di una timida luna non sorse, e mi accorsi che avrei fatto tardi al mio appuntamento.
Il luogo scelto per l’incontro questa volta era una casa vera, una villa seicentesca immersa nel verde del Parco del Destino, il quale ricopriva con le sue foreste lussureggianti punteggiate di dimore d’altri tempi la parte più distante dal centro città, dove risiedeva l’enclave benestante che la governava.
Un taxi-bot mi portò fino all base della collina, da lì in poi potevano accedere solo gli inquilini e gli ospiti, e in mancanza di altri mezzi dovetti farmi tutta la salita a piedi.
La strada larga e alberata procedeva sinuosa attraverso le poche proprietà di quel ristretto numero di privilegiati; aveva anche un nome, vagamente spagnolo, il cui suono pareva fluido come acqua sulla lingua, e che tuttavia ora mi sfugge.
Al numero trentaquattro trovai la luce del vialetto accesa e, avvicinandomi, una porta socchiusa mi invitò ad entrare. Alexander non era il tipo da venirti ad accogliere… diceva che sarebbe stata un’entrata poco scenica; per lui era tutto un divertimento o una noia mortale. Povero privilegiato, pensai.
Il sistema di sorveglianza costante attivo nel quartiere doveva averlo avvisato del mio arrivo, ed io sapevo che lui sapeva, ma finsi comunque un’espressione di sorpresa quando entrai nel salone dei ricevimenti e lo vidi di spalle, rivolto verso le candide fiamme del camino.
< Vecchio mio! > esordì, voltandosi con movimenti studiati, aprendo un braccio e tendendolo verso di me come un invito. L’impercettibile tocco dei miei passi sul marmo non poteva avermi tradito; come dicevo, lui sa quando sto arrivando.
< Alexander… > fu la mia risposta al suo affabile sorriso di carta.
< Perché non ti accomodi? Su, siedi pure in quella poltrona, io sprofonderò in questa. > disse indicando un’ampia seggiola imbottita che pareva portare la morbidezza delle nuvole estive fra i suoi braccioli. Non che la mia fosse da meno, anche se ho ragione di credere che anche questa mossa fosse stata pianificata.
Senza dire una parola tirò fuori qualcosa di rettangolare dalla tasca dei pantaloni, un oggetto che ricordava una scatola metallica, e lo appoggiò sul tavolino in cristallo fra il camino e le poltrone.
< Qual buon vento ti porta qui, amico mio? Ah! Non me lo dire. Ti ho invitato io… di recente? >
< L’altro ieri a dire il vero, con il preavviso che ti caratterizza. >
Lui soppesò le mie parole per un attimo. < Sai, > e qui si lasciò sfuggire un sorriso sincero, < a volte perfino io ho degli impegni che mi portano lontano, mentalmente. >
< Non lo metto in dubbio. La vera domanda è se ti ricordi il motivo di questo incontro. >
< Anders, > e qui mosse la mano in uno dei suoi tanti gesti teatrali, < le frivole cose della vita passano in fretta e non c’è giorno che io non mi chieda se sto facendo abbastanza. Certo che ricordo perché ti ho fatto venire, devo proporti un compito. Qualcosa mi dice che soltanto tu hai le capacità adatte. >
< Un compito? Di solito non usi il termine “affare” o “lavoro” ? > risposi, con evidente sarcasmo.
Per tutta risposta mi guardò con uno strano luccichio negli occhi e un’espressione divertita, più o meno l’equivalente di un: “non hai la minima idea di cosa sto per chiederti, e ti piacerà…”.
Sostenni il suo sguardo come potei, poi lui si alzò e prese due bicchieri dalle geometrie squadrate, ci mise del ghiaccio e versò un liquido ambrato in entrambi, senza un minimo di esitazione, dubbio, o impazienza. Tutto in lui era un continuo caos di sensazioni. Un momento ti faceva venire il volta stomaco e quello successivo non eri più in grado di intendere e di volere, tanto la sua presenza era magnetica.