Spazio -- draft
Il ronzio basso e monotono di un motore, da qualche parte.
Un odore acre di metallo, sudore e incertezza permeava l’aria attorno a me.
Questo è ciò che vedevo dalla mia posizione, raccontato in modo poetico. L'oblò che avevo di fronte, di qualsiasi materiale fosse fatto, assorbiva le radiazioni luminose provenienti dall’esterno di quel mezzo di trasporto spaziale, lasciando intravedere soltanto scintille blu elettrico su uno sfondo scuro, di un colore indefinito. Invece il sedile del prigioniero, ovvero me medesimo, era tutt’altro che indefinito. Una lastra di metallo freddo, piatto e squadrato che formava una sottospecie di posto a sedere unendosi con lo schienale, inesistente. L’abitacolo era illuminato dal blu dell’esterno e perciò aveva quell’atmosfera da film drammatico e malinconico; un dettaglio che non mi aiutava a riflettere. Dopo aver lasciato il pianeta ed essermi addormentato… o forse essere stato tramortito, mi ero risvegliato in quel buco di space shuttle che uno scrittore di fantascienza avrebbe definito al limite della sopravvivenza umana. Proprio perché incitava ad assumere una posa statuaria, da macchina, più che da essere vivente, in cui le chance di riuscire a mettere per intero un pensiero coerente erano pari a zero e la sensazione di sentirsi in gabbia, chiuso com’ero in uno spazio di tre metri per tre, incollato ad un sedile duro come l’acciaio, non faceva che rendere vorticoso, agitato, irrequieto, come un maelstrom, la sede dei miei pensieri.